La battaglia di Qadesh - Blog di Archeologia
LE FONTI
È stata una delle più grandi e note battaglie del mondo antico, narrata da molti testi e raffigurazioni, entrata nell’immaginario antico e moderno, eppure ne conosciamo solo una versione, che fornisce un quadro distorto di una sostanziale parità. Dei due contendenti, infatti, è l’Egitto che ci ha lasciato le sole notizie, magnificandone l’esito, mentre la versione ittita della storia, non avendo ritrovato quella che all’epoca per un breve periodo è stata la capitale, non ci è giunta.
Ramses II, che era allora il faraone, l’ha tramandata come una grande e magnifica vittoria in numerose occasioni, con testi prodotti dei livelli più alti della cancelleria reale sotto il diretto controllo del sovrano. Si trova iscritto su svariati templi, come nel Ramesseum, il suo tempio funerario a Tebe, ma anche nei templi di Luxor, Abido, Karnak e Abu Simbel, in una combinazione di immagini e testo, stringato e di tipo annalistico, noto come Bollettino della battaglia, che in seguito viene tramandato anche testo scolastico per l’istruzione degli scribi, quale era probabilmente il Poema della battaglia di Qadeš, anche detto Poema di Pentaur dal nome dello scriba che si è firmato nel colofone di chiusura in una copia successiva, che nonostante il nome è un lungo testo narrativo in prosa. Ne abbiamo anche menzione nella stele della benedizione del dio Ptah al sovrano, nel trattato di pace stipulato con i nemici ittiti, realizzato su lamine di argento, nelle lettere di trattative che lo precedono e nelle due stele che fa redarre in occasione del matrimonio politico con due principesse ittite, sposate appunto per suggellare il trattato.
Il Poema della battaglia si apre in modo topico, con immagini grandiose della magnificenza del sovrano quale emanazione divina, un’accezione ideologica che compare ora per la prima volta dai tempi di Amarna, che si rivolge agli dèi Montu, dio della guerra, Atum, dio creatore, e Seth, da sempre ambiguo ma ora assunto come divinità dinastica. Chiama in causa anche il dio Amon, a cui si rivolge come ad un padre, come già la regina-faraone Hatshepsut, dio con il quale si lamenta di essere stato abbandonato dall’esercito nel momento più importante della battaglia ed essersi ritrovato esclusivamente in compagnia di Amon a fronteggiare il nemico, mentre nella vignetta è rappresentato da solo sul suo magnifico (ed enorme in proporzione) carro nell’atto di travolgere una moltitudine di nemici, senza l’auriga che pur certamente era presente, come un eroe solitario e sovrumano.
La necessità più evidente è quella di propagandare agli occhi del popolo quello che è stato uno scontro dall’esito incerto come una vittoria schiacciante sostenuta dalle divinità, che ancora proteggevano il Paese assicurando giustizia e prosperità, ma forse più importante era quella di mostrare al contempo il sovrano in una nuova luce ideologica e religiosa. Egli infatti, prendendo in parte a modello sovrani come Hatshepsut e Akhenaton, costruisce una nuova immagine della regalità, in cui egli stesso è un dio vivente, emanazione divina, figlio di Amon, con il quale ha un rapporto esclusivo. In tal modo i potenti sacerdoti di Amon, che avevano acquisito sempre più potere dopo la restaurazione che ha seguito l’eresia di Amarna, vedono il loro ruolo ridimensionato, in quanto sostituito direttamente dalla persona del faraone, che attribuisce inoltre importanza maggiore ad altri culti, come quelli di Ra, Ptah e Seth, distribuendo in tal modo il potere religioso.
Nel trattato paritetico che stipula con gli Ittiti dopo una lunghissima trattativa egli è invece costretto ad usare toni molto diversi, in quanto si tratta di un documento ufficiale e condiviso, che cela la natura incerta dello scontro, in cui nessuno dei due contendenti può dirsi vincitore: chiama il re ittita “grande principe”, riconoscendo quindi il ruolo importante del nemico nello scacchiere internazionale, e “fratello”, in quanto suo pari grado, nonostante riservi per sé maggiore spazio con una titolatura più ampia, mentre le steli del matrimonio, che venivano lette solo dai suoi sudditi ammessi nel tempio del dio Sobek a Shebit, sono più critiche nei confronti dell’ittita, richiamando i toni del Poema, in cui lo definiva “vile” per aver utilizzato l’effetto sorpresa, imperdonabile secondo la logica dell’epoca che prevedeva regole precise per ogni battaglia, in cui veniva comunicato al nemico con una dichiarazione di guerra ufficiale luogo e data dello scontro, dopo averne spiegato analiticamente i motivi, convalidati dagli dèi, che garantivano la vittoria a chi si fosse dimostrato nel giusto.
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I FATTI
Nel quinto anno del regno di Ramses II (circa il 1274-5 a.e.v.), l’Egitto torna a combattere in Siria contro gli Ittiti. Suo padre Seti I, militare esperto che divenne il capostipite della XIX dinastia, aveva già sconfitto l’esercito ittita e conquistato la città di Qadeš, sulle rive dell’Oronte, già sconfitta da Tuthmosi III quasi duecento anni prima e poi perduta nel periodo di Amarna, ponendovi ancora una volta il confine, che restava incerto, non suggellato da trattati. Lo scontro militare restava quindi sempre dietro l’angolo, e si manifesta ora in una nuova guerra contro il re ittita Muwatalli II.
È questa la prima volta nella storia in cui in un testo vengono descritti schieramenti e tattiche militari, con un livello di dettaglio mai raggiunto successivamente. Sappiamo, ad esempio, che le varie divisioni, composte da vari reparti per un totale di 5000 soldati, avevano nomi di divinità, forse poste a tutela o ad indicare la città di provenienza, in cui il dio aveva il suo tempio più importante: abbiamo quindi la divisione Ptah da Menfi, quella Ra da Menfi o Eliopoli, la Amon da Tebe e la Seth dal Delta, composta ciascuna da 4000 fanti e 1000 arcieri e carristi, altresì differenziati in 1900 soldati egizi, in parte esperti e in parte di leva, e 2100 mercenari, tra cui Nubiani, Libici e i temuti guerrieri Shardana, da pochissimo incorporati nell’esercito come guardia personale del re. Vi era inoltre una divisione di ausiliari, raccolti tra i regni vassalli. Conosciamo inoltre, anche archeologicamente, le armi: vi erano fanti dotati di scudo leggero, ascia, daga, pugnale o khopesh, la tipica spada a falce, ma anche arcieri provenienti dalla Nubia e, davanti a questi, in prima linea, carri da guerra leggeri trainati da due cavalli, adatti a sfondare le linee nemiche e creare il panico tra i loro fanti, che potevano portare, oltre all’auriga, dotato di scudo, un’altra persona, di alto rango, generalmente un nobile, armata di lungo e potente arco composito e spada.
In una prima spedizione a nord verso Amurru, il sovrano Benteshina, alleato degli ittiti, si arrende senza combattere, conscio di non poter resistere. Ramses si ritiene soddisfatto di questa prima vittoria, che toglie di nuovo ai nemici un importante stato cuscinetto dal comportamento ambiguo, guadagnando terreno, e tornò a casa per riorganizzare l’esercito durante l’inverno.
Partito per la seconda volta dalla sua capitale nel Delta, Pi-Ramses, egli separa l’esercito in due parti: una divisione dovrà raggiungere le città costiere già alleate, come Biblo, per chiederne l’intervento come da trattati vigenti, le altre, distanziate tra loro ma sotto la guida di Ramses stesso, percorreranno la via interna spostandosi di città in città fino a raggiungere e fronteggiare il nemico presso il confine. I suoi figli sono con lui: hanno alti gradi di comando, ma sono ancora inesperti, è una buona occasione per imparare.
Lungo il viaggio, dopo aver attraversato i boschi di Labouy, le sentinelle di pattuglia trovano dei beduini, che vengono fatti prigionieri per ottenere informazioni: essi dichiarano che Muwatalli, spaventato dalla potenza del faraone, si è accampato nelle vicinanze di Aleppo, l’esercito nemico si trova quindi ancora a diversi giorni di cammino, pertanto gli Egizi non corrono pericoli. Viene perciò deciso dal consiglio di raggiungere la città di Qadeš, come stabilito nella dichiarazione di guerra, e di porla sotto assedio.
L’esercito ittita è descritto da Ramses, in modo probabilmente esagerato, come una immensa quantità di nemici, in numero tale da non lasciare scampo agli Egizi per differenza numerica, se non fosse per l’appoggio degli dèi e per le capacità del faraone. Il sovrano ittita sembra aver creato una coalizione senza precedenti, infatti “nessuna terra mancò di inviare i suoi uomini, […] una moltitudine grandissima e senza uguali, che copriva le montagne e le vallate come locuste. Il re degli Ittiti non aveva lasciato oro o argento nel suo regno, lo aveva radunato e donato a ogni paese con lo scopo di trascinarlo con sé nella battaglia”. Si stima, in base al testo, che però è talora contraddittorio, che si sia trattato di ben 40000 fanti e 3700 carri robusti che potevano portare tre persone (l’auriga, l’arciere che aveva anche una lancia e il portascudi), risultando circa il doppio di quelli egizi, anche se non altrettanto organizzati e compatti, in quanto provenienti soprattutto da stati clienti, con equipaggiamenti dissimili e parlanti lingue diverse, tra cui Wiluša (identificata con l’omerica Troia, con il cui sovrano Alaksandu/Alexandros il gran re Muwatalli aveva appena concluso un trattato), Lukka (la Licia classica), Karkemiš (città strategica sull’Eufrate), e le città siriane di Aleppo, Ugarit e la stessa Qadeš. Le immagini raffigurano questi soldati nemici come una massa disordinata di uomini, come sempre ben poco caratterizzati: sono visibilmente orientali, secondo il toposiconografico, e sono l’esatto opposto dell’ordine cosmico e della stabilità personificati dal faraone, in quanto portatori di caos e pericolo nel mondo perfetto stabilito dagli dèi, pertanto destinati a soccombere.
Accompagnato dalla sola divisione Amon, il faraone va in avanscoperta nella valle senza attendere i rinforzi, sicuro della distanza che lo separa dagli avversari, e si accampa sulla riva dell’Oronte in prossimità di Qadeš, ordinando una sorta di castrum ben organizzato, con le tende disposte in modo regolare e circondato da una palizzata, progettando l’assedio.
Ma i prigionieri beduini mentono, poiché si tratta di spie: infine confessano che i nemici si trovano proprio dietro la fortezza di Qadeš, nascosti in attesa dell’esercito egizio. L’effetto sorpresa, tanto esecrato nei rapporti internazionali, si rivela determinante. Il faraone riunisce subito i suoi consiglieri e invia messaggeri alle altre divisioni affinché affrettino il passo e lo raggiungano immantinente.
I tempi sono strettissimi, e la divisione Ra, la più vicina, proprio mentre attraversa il fiume nel tentativo di raggiungere il sovrano, non trova scampo: vengono attaccati dai carri ittiti sbucati all’improvviso da dietro la collina su cui sorge la città, i pochi sopravvissuti riescono a fuggire a fatica arrancando tra le acque del guado.
Gli Ittiti si dirigono allora verso l’accampamento di Ramses, mentre la divisione Ptah sta ancora attraversando la pianura, giungendo dalla costa; quella di Seth invece è lontana, nella foresta di Labouy. È la divisione Amon, quella del sovrano, quindi, a dover affrontare da sola i migliaia di soldati nemici. Il faraone ci informa, sorprendentemente, che una parte di entrambi gli eserciti non combatte, ovvero gran parte dei fanti ittiti e un’intera divisione egizia: accade tutto così in fretta che le forze non hanno il tempo di entrare in campo, perché lo scontro, diversamente dal solito, non era preordinato.
Nonostante la disperata resistenza egizia, l’armata ittita riesce a sfondare le linee nemiche e a penetrare nell’accampamento. Nell’infuriare della battaglia, Ramses per un attimo si guarda intorno: egli è solo sul suo carro, separato dal resto del suo esercito, con solo i suoi fedeli e valorosi Shardana a difenderlo e la mano di Amon a proteggerlo, rispondendo all’invocazione del suo protetto di ricambiare il favore della costruzione di templi e dei tanti sacrifici compiuti dal faraone in suo onore. Dove sono tutti? Non bastano a spronarli i generosi benefici concessi a chi si dimostra un eroe? Perché, o Amon, lo hanno abbandonato?
Gli Ittiti mandano in massa i loro soldati ad uccidere il re nemico, ma invano: Amon lo protegge. Ramses raddoppia gli sforzi e riesce a respingerli, anche grazie alla forza divina di Seth. Egli riorganizza rapidamente le truppe, riunendosi ai pochi sopravvissuti della divisione Ra. In quel momento, da ovest arriva anche la divisione Ptah, che era stata inviata sulla costa, riportando l’aiuto delle città sottomesse. Le truppe ausiliarie risultano infine determinanti l’esito dello scontro, in cui muoiono anche due fratelli del re ittita.
Mentre i nemici si attardano a recuperare il bottino razziando “in modo meschino” i corpi dei caduti, il vantaggio più grande che possono sperare di ottenere dalla guerra, seppure disonorevole, Ramses ordina un nuovo attacco con i carri, falcidiando gli avversari, i quali non vengono spalleggiati dal grosso della fanteria ittita, che rimane in disparte, ma lasciati al loro destino e all’amara vittoria egizia.
Il giorno dopo Muwatalli, che forse era assente dall’azione, invia una proposta di armistizio, che Ramses accetta subito, rinunciando all’assedio e tornando in patria a studiare la giusta linea di propaganda.
LE CONSEGUENZE
Si tratta probabilmente di una parità. Nonostante il faraone si vanti della grande vittoria, lo scontro si rivela catastrofico per entrambi gli schieramenti. Migliaia di morti, anche tra gli stessi familiari dei due re, restano sul campo, mentre nulla cambia nello scacchiere internazionale: il confine resta a Qadeš, i rispettivi vassalli restano per lo più immutati.
Subito dopo la battaglia, Ramses raduna tutti i nobili che erano stati presenti e decapita personalmente con il suo khopesh coloro che fuggirono dalle schiere, punisce i vassalli siriani che si sono dimostrati deboli o che avevano addirittura cambiato schieramento, mentre verso i vinti, egli dice, mostra clemenza. Muwatalli invece rinnova i trattati con i potentati locali, anche se sono stati dei deboli alleati.
Di nuovo non si raggiunge un accordo, il confine resta incerto in una sorta di guerra fredda tra le due superpotenze, seppure terminano le schermaglie. Per gli Egizi si apre un periodo di tranquillità, ma gli ittiti devono affrontare una nuova grande minaccia, quella assira, il cui ambizioso re Salmanassar III riesce ad inglobare il regno di Mitanni giungendo fino a Karkemish, l’antico confine. Le trattative tra il faraone egizio e il tabarna ittita però vanno avanti, con difficoltà, ma con la consapevolezza da parte ittita della necessità di un alleato valido contro i nemici esterni, trattative che durano ben 17 anni.
Nel frattempo, il re ittita è morto poco dopo lo scontro, che forse lo vedeva già malato, e un nuovo sovrano siede al suo posto come vincitore di una sanguinosa lotta dinastica, suo zio Ḫattušili III. È un uomo di polso e di grande potere, nonché grande stratega, che tra le altre cose stabilisce nuovi trattati con i territori siriani: i re di Amurru e Ugarit vengono rimossi dal potere e sostituiti. Ma è anche un uomo fisicamente fragile e malato, che soffre di afasia e forse di epilessia. La sua amatissima moglie Pudu-Hepa, incontrata proprio al ritorno da Qadeš, quando egli era già un uomo di mezza età e braccio destro del re ed ella era sacerdotessa della dea sole Hepat nello stato cliente di Kizzuwatna, dove l’esercito aveva fatto tappa, è colei che porta avanti alacremente le trattative, che però non soddisfano Ramses II.
Il faraone è sorpreso e stizzito dal fatto che una donna straniera si rivolga al divino sovrano, ma Pudu-Hepa è inamovibile: se si vuole giungere ad una pace, egli dovrà parlare solo con lei. Neppure le condizioni della pace piacciono a Ramses, perché prevedono un matrimonio interdinastico che metterebbe troppo in risalto il ruolo della nuova sposa, la figlia di Ḫattušili e Pudu-Hepa, che per lei reclama il ruolo di Grande Sposa Reale, sottraendolo all’amata regina Nefertiti, un affronto personale e ideologico per il faraone. Inoltre il primogenito della coppia dovrà essere allevato ad Hatti, per assorbire la cultura materna. Ramses nicchia, ma non potrebbe ribattere, secondo Pudu-Hepa, perché ha dato asilo al legittimo erede al trono di Hatti, Urḫi-Tešup, sconfitto da Ḫattušili. Inizialmente il faraone temporeggia, ma poi cede.
Viene dunque siglato ufficialmente il trattato, scritto su tavole di argento e in varie copie per gli archivi reali. In esso, con la tipica ridondanza e pomposità adatta ad un trattato paritetico tra due grandi re, si stabilisce il confine a Qadeš, si rinnovano i trattati precedenti, si stabiliscono i nuovi patti di non aggressione e di reciproco aiuto in caso di difficoltà, oltre che il non meno importante vicendevole obbligo di non dare ricovero ai fuggitivi, ma di restituirli al Paese di origine. Il tutto viene suggellato dai sigilli dei rispettivi sovrani alla presenza di importanti testimoni, e una maledizione colpirà chi non rispetterà il trattato.
“Questi patti sono scritti su tavolette di argento del paese ittita e del paese di Egitto. Chi dei due contraenti non li osserverà, mille dèi del paese degli Ittiti e mille dèi del paese degli egizi distruggano la casa, la terra, i sudditi. Al contrario, chi osserverà questi patti, egizio e ittita che sia, mille dèi del paese degli Ittiti e mille dèi del paese degli Egizi, facciano che egli viva in buona salute e con lui la sua casa, il suo paese i suoi sudditi.”
Il grande matrimonio politico del faraone con la principessa ittita è testimoniato dalla prima stele, in cui si dichiara che il sovrano ittita, il cui regno è indebolito dalla carestia e avendo deluso e indispettito il dio Seth, è costretto a riempire l’Egitto di doni per poter placare la divinità ostile e il nemico troppo forte. Il viaggio della sposa inoltre è talmente lungo difficile che il faraone nella sua magnanimità “fa diventare l’inverno estate” per lei, insignita del titolo di Grande Sposa Reale e di Figlia del Gran Re di Hatti. I due re e le rispettive regine si scambiano doni e lettere in un clima di rinnovata fratellanza.
L’Egitto, però, è da sempre poco incline a donare al pari di quanto riceve e a mantenere le promesse internazionali, se queste possono in qualsiasi modo sminuire il ruolo del sovrano: dopo tutto, un dio vivente non può scendere a patti e porsi sullo stesso piano di un qualsiasi re straniero, un semplice mortale.
Dopo poco tempo, della giovane moglie ittita si perdono le tracce. Pudu-Hepa, non ottenendo risposta alle lettere, invia un messaggero a controllare di persona se ella stia bene, ma egli non la trova. Si pensa che sia stata esiliata nel Fayyum, allontanata dalla corte. Anche della bambina che ha partorito non si sa più nulla, forse l’ha seguita. Una seconda principessa ittita viene data in sposa al faraone, ma anch’essa scompare dalla storia. Ormai però il trattato è siglato, e maledetto sia chi lo infrange: alla regina Pudu-Hepa, seppure assorbita da questioni di politica interna e internazionale, non resta che lo sconforto per la sorte incerta delle due figlie.
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